00 ARTICOLO | DATA 24.07.25 | 4 minuti di lettura
Intervista a Luisa Nico
Presidente Associazione Pazienti Ipofosfatasia (API)

Gentile Luisa, cosa significa realmente vivere con l’Ipofosfatasia ogni giorno? Qual è l’impatto sulla quotidianità?
L’Ipofosfatasia è insidiosa, subdola e faticosa da affrontare. Essendo una malattia metabolica e non specifica solamente dell’osso, causa astenia, debolezza cronica, oltre che naturalmente fratture frequenti e continue sedute odontoiatriche già a partire dalla tenera età, con ripercussioni economiche non indifferenti e trascurabili. Tutto questo è molto amplificato quando non si sa dare un nome alla propria malattia. Partendo dalle microfratture e dalle fratture, poi, si hanno ripercussioni su cartilagini, tendini con malformazioni e impedimenti di mobilità degli arti inferiori. Avere l’Ipofosfatasia, nel quotidiano, significa avere difficoltà a fare una semplice passeggiata, a guidare la macchina, a firmare un documento, a svolgere un lavoro, o fare le pulizie di casa, così come allacciarsi le scarpe o regolarsi la cintura dei pantaloni.
Una sintomatologia sempre presente e forte dunque?
Sì, crampi improvvisi ai piedi che richiedono soste continue e, alla lunga, la necessità di stravolgere la propria routine e limitare, se non cancellare definitivamente, molte abitudini. Questa è l’Ipofosfatasia. E vivere soli è complicatissimo. La presenza di un caregiver, un familiare, un qualcuno da cui dipendere, purtroppo, è sostanziale. Erroneamente, si pensa all’Ipofosfatasia come solamente una malattia dell’osso, ma è una malattia metabolica, svegliarsi ogni mattina e sentirsi stanchi è una condizione difficile da comprendere, molto pesante da affrontare tutti i singoli giorni, con una sensazione di inadeguatezza non indifferente. Se si è una madre, o un padre di famiglia, il peso della malattia è maggiore, perché il paziente con Ipofosfatasia ha bisogno di attenzioni e di cura; prendersi cura a sua volta di altri è molto complicato.
I pazienti risentono, in prima battuta, della difficile, e spesso tardiva, diagnosi. Quali sono i principali problemi correlati a questo fattore per un paziente e per i suoi cari?
La malattia è altamente confondente e sovrapponibile a molte altre condizioni cliniche, più comuni e facili da riscontrare per i medici. Spesso l’Ipofosfatasia viene confusa con l’osteoporosi, le microfratture che non vengono diagnosticate, ma che portano dolore acuto e cronico, si confondono con la tendinite. Le terapie che vengono somministrate, quindi, non fanno altro che causare effetti collaterali, oltre che non curare la malattia. Addirittura, viene messa di mezzo anche la depressione o l’essere maldestri, collegando erroneamente le cadute e la sensazione di debolezza persistente con problemi legati alla psiche del paziente, e a situazioni psicosomatiche. Una mancata diagnosi, o una diagnosi sbagliata, magari dove il paziente viene definito “lagnoso e svogliato”, incide in modo marcato sulla sfera personale e sociale dei rapporti poiché, apparentemente, è come se fosse colpa sua, del paziente, come se avesse delle fisime.
Cosa si potrebbe fare per migliorare la diagnosi e avviare il paziente al migliore trattamento possibile?
Un’attenzione maggiore andrebbe dedicata alle analisi cliniche perché ci vuole una maggiore preparazione da parte della classe medica, generale e specialistica, nell’osservare il quadro del paziente, non solo una volta, ma nel corso negli anni. La fosfatasi alcalina che risulta essere troppo bassa o troppo alta nel tempo, deve essere per forza di cose colta come campanello di allarme, e quindi, investigata attraverso esami genetici. Il medico del territorio che ha oltre mille assistiti non ha modo di intercettare la patologia, né questa né molte altre. Ma bisogna fare di più per sensibilizzare e informare.
Cosa chiede al Sistema Sanitario, e a tutti coloro che a vario titolo entrano in gioco nella presa in carico di un paziente con malattia rara, e nello specifico con Ipofosfatasia, per non vivere quanto ha vissuto lei, e quanto sta vivendo tutt’oggi?
La sanità regionale è differente territorio per territorio. Il paziente del Lazio ha qualche punto di riferimento, ma molti connazionali che abitano in altre regioni “meno fortunate”, non sanno come muoversi, soprattutto alla luce della poca conoscenza della malattia, non solo da parte del medico di medicina generale, ma anche da parte di molti specialisti. Questo crea un ritardo diagnostico che è un primo gap insormontabile, che non si può più recuperare. Ogni regione deve avere un polo di riferimento. Le regioni piccole possono accontentarsi di un unico centro, ma per quanto riguarda le regioni con una maggiore popolazione, dovrebbe esserci almeno un centro per capoluogo di provincia.
Il Sistema Sanitario deve essere pronto a sopperire ai bisogni di noi pazienti, prima che si raggiunga l’apice della sofferenza e della sopportazione. La cooperazione tra specialisti, dunque, è un fattore determinante per la corretta diagnosi e una tempestiva e globale presa in carico dei pazienti. Bisogna investire meglio e di più nella Sanità, lo Stato deve essere più presente. Le persone affette da HPP esistono, sono molto di più di quello che si pensa, e non vogliono e non possono vivere da sole il dramma di passare molta parte della loro vita, o forse la vita intera, con sintomi fortemente invalidanti senza capire bene di cosa si tratti realmente.
Lei è Presidente di API – Associazione Pazienti Ipofosfatasia. Qual è l’impegno di questa associazione?
API è la prima organizzazione italiana dedicata a supportare le persone affette da Ipofosfatasia, e nello specifico l’associazione ha l’obiettivo di fornire assistenza e guida ai pazienti e ai loro caregiver. Intendiamo promuovere la conoscenza dell’Ipofosfatasia e aiutare a comprendere meglio come migliorare diagnosi e trattamento del paziente. Riteniamo importante fare sinergia, e le iniziative di divulgazione che si stanno promuovendo negli ultimi anni vanno proprio nella direzione giusta.
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